Ecco come dovrebbe essere una Svizzera senza emissioni di carbonio nel 2050 

La Svizzera si è posta l’obbiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Secondo diversi studi, è possibile garantire l'approvvigionamento energetico del Paese anche senza combustibili fossili. Saranno necessari, però, importanti cambiamenti nei comportamenti, afferma un esperto.

Entro il 2050, la Svizzera non dovrebbe più emettere nell'atmosfera più gas serra di quanti ne possano assorbire i suoi bacini naturali e artificiali. Questo è l'obiettivo fissato dalla Confederazione elvetica e approvato dalla popolazione in giugno. Ma molte domande rimangono senza risposta.

Come sarà una Svizzera con pochi o nessun combustibile fossile? 

Un edificio riscaldato solo dal calore di chi lo occupa e raffreddato da valvole che fungono da climatizzatori: a Lucerna, il progetto pilota "2226" dà un'idea di come sarà l'architettura del futuro. 

Per chi ha progettato questo edificio, attualmente l'unico del suo genere in Svizzera, offre solo vantaggi. "Il suo consumo energetico è un terzo di quello di un edificio convenzionale dotato di riscaldamento e aria condizionata. Stiamo risparmiando e riducendo le emissioni di CO2", afferma l’architetto a capo del progetto Thies Böke, intervistato dalla RTS. 

Per raggiungere l'obiettivo climatico della Confederazione, questo tipo di immobili dovrebbe diventare sempre più comune nei prossimi 30 anni. Edifici ben isolati e riscaldati da pompe di calore, auto elettriche e camion a idrogeno, sviluppo di pannelli solari, energia eolica e macchine per catturare le emissioni di CO2 inevitabili: è attraverso un mix di misure che la Confederazione intende raggiungere il suo obiettivo. 

Secondo la Confederazione, le emissioni di CO2 generate dai trasporti, dal riscaldamento e dal raffreddamento degli edifici e dall'industria possono essere ridotte fino al 95% utilizzando le tecnologie esistenti e le energie rinnovabili. Sarà inoltre possibile diminuire l'uso di altri gas serra, in particolare in agricoltura. Le emissioni rimanenti saranno compensate dai pozzi naturali di CO2, come le foreste e i terreni, nonché da tecnologie in grado di rimuovere i gas serra dall'atmosfera o di catturarli direttamente dove vengono prodotti, ad esempio negli impianti di incenerimento, per poi stoccarli a lungo termine. 

"In ogni caso, questa transizione avverrà, che ci piaccia o no. Il petrolio prima o poi finirà e l'Europa non avrà altra scelta che affidarsi alle energie rinnovabili", afferma l'ingegnere Marc Muller, esperto indipendente specializzato nella transizione energetica. 

Basandosi sul principio che il costo dell'inazione è molto più alto del costo dell'azione, il mondo politico si unirà e lavorerà rapidamente per trovare soluzioni, nonostante la lentezza del processo democratico in Svizzera, ritiene Muller. "La Svizzera ha già dimostrato più volte in passato di saper agire rapidamente quando è sotto pressione", afferma. Questo sarà un fattore decisivo per il successo della transizione. "Prima riprenderemo il controllo della nostra produzione energetica, meno probabilità avremo di subire le conseguenze potenzialmente devastanti della scarsità di energia su scala globale", sottolinea Muller. 

Saremo in grado di garantire la sicurezza del nostro approvvigionamento energetico? 

Sì, secondo due studi resi pubblici poco prima del voto. Il primo, pubblicato il 24 maggio dagli esperti e dalle esperte del Centro per le scienze energetiche del Politecnico federale di Zurigo (ETHZ), conclude che è possibile raggiungere questo obiettivo sia dal punto di vista tecnico che da quello economico. La strada da seguire è quella dell'elettrificazione dei trasporti e del riscaldamento, che ridurrà la domanda complessiva di energia. 

Queste trasformazioni energetiche faranno certamente aumentare la domanda di elettricità, che passerà dagli attuali 60 terawattora (TWh) a 80-100 TWh nel 2050. Ma tale domanda può essere soddisfatta aumentando la quantità di energia rinnovabile prodotta in Svizzera e scambiando elettricità con i Paesi vicini, secondo i ricercatori e le ricercatrici dell’ETHZ. 

Il secondo studio, pubblicato il 30 maggio da un gruppo di ricerca del Politecnico federale di Losanna (EPFL) e dell’Università di scienze applicate e arti della Svizzera occidentale (HES-SO), fa un ulteriore passo avanti, stimando che la Svizzera potrebbe raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 senza dover importare elettricità. La chiave sta nella produzione massiccia di elettricità fotovoltaica in estate e nel suo parziale stoccaggio nelle dighe per l'utilizzo in inverno. 

In questo scenario, circa il 60% dei tetti del Paese dovrebbe essere coperto da pannelli solari. Anche la produzione di energia eolica dovrebbe aumentare inverno. Oltre a essere meno inquinante, questo futuro sistema energetico sarà meno costoso, secondo i ricercatori e le ricercatrici. Non ci sarà più bisogno di mettere mano al portafoglio per importare petrolio, gas o elettricità, con un risparmio del 30% circa a lungo termine. 

Le persone dovranno cambiare le loro abitudini per raggiungere questo obiettivo? 

Senza dubbio. "Non viene sempre evidenziato nei rapporti, ma non possiamo raggiungere questi obiettivi senza rigorose misure di sobrietà", sottolinea Marc Muller. Ad esempio, attualmente non esiste un'alternativa valida alla decarbonizzazione del settore dell'aviazione. "Per far volare tutti gli aerei in modo pulito sarebbe necessario il 30% dell'elettricità prodotta a livello mondiale. Una cifra indecente, se si considera che solo l'1% della popolazione mondiale utilizza regolarmente questo mezzo di trasporto", afferma Marc Muller. 

Secondo l'esperto, dobbiamo anche riportare in patria parte della nostra produzione industriale e ridurre drasticamente le importazioni dall'Asia e da altri Paesi. Altrimenti corriamo il rischio di far pagare ad altri Paesi il costo di questa transizione. "Ma non ci piace dirlo in un Paese che ha costruito la sua prosperità sul libero scambio e sull'apertura dei mercati", dice Marc Muller. 

Si tratterà anche di convincere la significativa minoranza di persone che ha votato "no" a giugno. "Finora abbiamo reso l'ecologia il più indesiderabile possibile", afferma Marc Muller. L'esperto sostiene la necessità di ridurre gli standard e i vincoli per rendere più piacevole l'accesso a uno stile di vita a basse emissioni di carbonio. "Ad esempio, per cambiare il riscaldamento bisogna compilare molti moduli, mentre si può volare 50 volte all'anno senza alcun ostacolo. Questa situazione deve cambiare", aggiunge l'esperto. 

Anche altri Paesi si stanno muovendo verso la neutralità carbonica? 

Secondo la piattaforma Net Zero Tracker, 148 dei 198 Stati membri delle Nazioni Unite hanno annunciato di ambire alla neutralità climatica. Insieme, rappresentano l'88% delle emissioni globali e l'85% della popolazione del pianeta. La maggior parte di essi intende raggiungere questo obiettivo entro il 2050. Ma alcuni Paesi sono più ambiziosi, come la Finlandia (2035) e la Germania (2045). La Cina e la Russia, due dei maggiori emettitori mondiali, puntano al 2060. 

Nel 2019, il Regno Unito è diventato il primo grande Paese industrializzato a tradurre in legge il proprio impegno a passare a zero emissioni nette di gas serra. In totale, comprendendo anche il risultato di giugno in Svizzera, 26 Paesi hanno sancito la neutralità climatica nella loro legislazione. Tra questi, Francia, Germania, Spagna, Danimarca, Giappone e Corea del Sud. 

"Nessun Paese ha trovato la soluzione ideale, ma i Paesi nordici possono essere una fonte di ispirazione. Ammiro l'esempio danese, dove due terzi dei parchi eolici sono di proprietà pubblica. La transizione ecologica va di pari passo con la democratizzazione delle infrastrutture energetiche", afferma Marc Muller. 

Una Svizzera climaticamente neutra

Le Conferenze sul clima hanno ancora senso?

Il divario di emissioni continua ad aumentare

Il mondo si sta allontanando dagli obiettivi dell'Accordo sul clima di Parigi. Questa è la conclusione di un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente. Ma ci sono anche notizie positive

Simone Fassora

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Le emissioni globali dovrebbero diminuire rapidamente per limitare il riscaldamento globale a meno di 2 gradi, se possibile a 1,5 gradi, come concordato a Parigi nel 2015. Tuttavia, il divario tra ciò che sarebbe necessario per raggiungere questi obiettivi e le emissioni effettive ha continuato a crescere. Lo dimostra il nuovo rapporto Emissions Gap del Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP).

Tra il 2021 e il 2022, le emissioni globali di gas serra sono aumentate dell'1,2%, raggiungendo un nuovo record di 57,4 gigatonnellate, ovvero 57,4 miliardi di tonnellate.

Le emissioni sono in calo in molti Paesi industrializzati, tra cui la Svizzera. Ma poiché paesi popolosi come l'India e la Cina, in particolare, stanno emettendo una quantità di CO₂ significativamente maggiore dopo la pandemia, si è raggiunto questo record.

Gli autori del rapporto hanno riassunto le promesse e gli obiettivi dei Paesi. In tutto il mondo sono già state adottate misure e altre sono in programma. Secondo le stime, queste misure provocheranno un riscaldamento della Terra tra i 2,5 e i 3 gradi entro la fine del secolo.

Il problema è che le misure adottate finora dai Paesi non sono sufficienti. Molti Paesi stanno espandendo la produzione di energia rinnovabile, soprattutto quella solare ed eolica. Allo stesso tempo, continuano a fare affidamento su carbone, petrolio e gas.

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Sempre più veicoli elettrici vengono immessi sulle strade. Ma il traffico aereo è praticamente tornato ai livelli pre-pandemia. Inoltre, si notano sviluppi disomogenei all'interno dei Paesi. Mentre le popolazioni ricche hanno aumentato ulteriormente le emissioni di CO₂, anche nei Paesi industrializzati le emissioni sono in media in calo.

L'UNEP chiede ai Paesi industrializzati di essere più ambiziosi e di sostenere i Paesi del Sud globale. L'obiettivo è aiutare un maggior numero di persone a uscire dalla povertà senza aumentare le emissioni di gas serra.

L'energia verde, ad esempio, non è solo rispettosa del clima. L'espansione dell'energia solare ed eolica è anche più economica di quella delle centrali a combustibili fossili. Inoltre, secondo l'ultimo rapporto, porta più posti di lavoro ed è meno dannosa per la salute.

Il rapporto dell'UNEP ipotizza che le emissioni globali raggiungeranno il picco prima del 2030 e poi diminuiranno. Ciò è dovuto principalmente al fatto che la Cina sta portando avanti l'espansione delle centrali solari ed eoliche molto più velocemente di quanto si pensasse in precedenza.

Se le emissioni dovessero effettivamente diminuire a breve, questo non sarebbe un segnale di via libera. Tuttavia, sarebbe la prova che le misure per combattere il cambiamento climatico sono possibili ed efficaci.

Alla conferenza sul clima di Dubai, gli Stati sono chiamati ad adottare misure ambiziose.

Obbiettivi dell’accordo di Parigi più lontani

L'economia dirotta gli sforzi per il clima?

Molti dei 100'000 partecipanti alla Conferenza sul clima a Dubai rappresentano il mondo economico. Una presenza non necessariamente positiva per la lotta al cambiamento climatico.

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Quasi 100'000 persone provenienti da quasi 200 Paesi si sono recate a Dubai per la COP28, dai consulenti ai giovani relatori. Anche se non ci sono dati precisi, è chiaro che i partecipanti del settore economico privato sono più numerosi che mai.

A Dubai si incontrano le aziende più diverse che hanno a che fare con la protezione del clima, ma sempre più in generale con la protezione dell'ambiente. Anche il settore finanziario svizzero è ben rappresentato.

La conferenza sul clima ha assunto il carattere di un secondo Forum Economico Mondiale, un WEF, afferma ad esempio la segretaria di Stato svizzera per le questioni finanziarie internazionali, Daniela Stoffel.

Stoffel afferma che è necessario decidere se la protezione del clima e dell'ambiente debba essere valutata anche in termini economici. In definitiva, è necessario adottare misure per "preservare un tipo di natura necessaria dal punto di vista economico - e che garantisca il nostro futuro comune sul pianeta".

Di conseguenza, i prodotti finanziari che generano un profitto se l'ambiente è protetto sono diventati un tema importante nel settore. Vengono negoziati, discussi e venduti a Dubai.

Oltre alla rappresentante della piazza finanziaria svizzera, anche il project manager del Kenya è alla ricerca di donatori per il suo progetto di riforestazione. Jonathan Muriuku di Restore Africa è sicuro di trovarli a Dubai. "Ieri, in occasione di un forum con gli investitori, è emerso un grande interesse per il nostro progetto", afferma.

La lobby del petrolio vuole rallentare i negoziati

Molti dei rappresentanti dell'economia presenti alla COP28 non sono direttamente coinvolti nei negoziati sul clima delle Nazioni Unite. Ciononostante, sono volati a Dubai.

Questo farà progredire la protezione del clima? Sì e no, dice Stefan Salzmann. È responsabile della politica energetica e climatica presso l'organizzazione umanitaria Fastenaktion ed è osservatore a Dubai.

"Se gli interessi economici sono in contrasto con gli obiettivi dell'Accordo sul clima di Parigi, è dannoso per la protezione del clima", afferma. In particolare, Salzmann osserva che la lobby dei combustibili fossili è fortemente rappresentata a Dubai. "Il loro obiettivo non è raggiungere una protezione ambiziosa del clima, ma ritardare i negoziati. Non va bene".

Importanti promotori delle energie rinnovabili

D'altra parte, è positivo che molte aziende vogliano impegnarsi nell'espansione delle energie rinnovabili, ad esempio. Alla COP28 hanno esercitato pressioni sugli Stati affinché si impegnassero chiaramente per una maggiore protezione del clima. Tuttavia, la popolazione locale non deve essere dimenticata, sottolinea il rappresentante dell'organizzazione umanitaria.

Sembra chiaro che la sola presenza di così tanti rappresentanti del settore privato dimostra che la politica climatica tocca e interessa ormai tutti i settori della società e dell'economia. Solo pochi anni fa le cose erano molto diverse.

Il mondo degli affari e la COP28

Sotterrare il CO2, la Svizzera parte dall’Islanda

I primi incoraggianti risultati dello studio condotto dal Politecnico di Zurigo sulla tecnologia per rimuovere anidride carbonica dall'atmosfera

Catturare l’anidride carbonica e riportarla nelle viscere della terra, da dove in definitiva è arrivata. Per azzerare le emissioni di gas a effetto serra entro il 2050, come prevede la legge sul CO2, non basta promuovere le energie rinnovabili, bisogna anche puntare sulle cosiddette tecnologie a emissioni negative. Il Politecnico di Zurigo ha condotto uno studio di fattibilità: “Abbiamo studiato come queste tecnologie possono essere implementate a una scala grande che serva appunto la strategia climatica svizzera”, spiega il professore del Politecnico Marco Mazzotti, che negli ultimi due anni ha coordinato la ricerca voluta dalla Confederazione, coinvolgendo anche l’industria. 

Per valutare le potenzialità di questi nuovi metodi, dice lo studioso, “abbiamo guardato all’utilizzo e allo stoccaggio permanente della CO2 in calcestruzzo di demolizione che poi può essere riciclato, oppure lo stoccaggio di anidride carbonica nel sottosuolo in formazioni geologiche adatte. Noi abbiamo lavorato con l’Islanda perché lì c’è questo basalto che è molto reattivo con la CO2. Quando viene iniettata, disciolta in acqua, reagisce velocemente e si mineralizza, diventa un sasso”.

Nuove tecnologie che si sono rivelate sostenibili dal punto di vista economico e con un bilancio climatico positivo, anche per quanto riguarda questo stoccaggio. “Il sistema per la cattura, il trasporto e stoccaggio della CO2 dalla Svizzera all’Islanda, naturalmente, comporta elementi che richiedono energia e che causano emissioni indirette di CO2. Queste emissioni devono essere inferiori a quello che noi trasportiamo e stocchiamo. Il bilancio ha dato un’efficienza dell’80%, questa la percentuale della CO2 effettivamente rimossa dall’atmosfera”.

La Svizzera quest’anno è stata il primo Paese che ha esportato CO2 all’estero per lo stoccaggio. Le nuove tecnologie sono molto promettenti, ma si è appena agli inizi, avverte il professor Mazzotti: “Come ricercatore il mio ruolo è di trasferire nell’applicazione il più in fretta possibile quello che abbiamo imparato nella ricerca. Supportando quelle aziende, quegli emettitori che vogliono implementare queste tecnologie a una scala più grande”.

È anche una sfida politica. La Svizzera, proprio come altri Stati, dovrà sviluppare quadri normativi per il trasporto e lo stoccaggio del CO2. Tanto resta dunque da fare. Continua anche il lavoro dei ricercatori del Politecnico, in una prossima tappa intendono studiare il sottosuolo della Svizzera per capire se offre un potenziale interessante per sotterrare l’anidride carbonica.
 
 

Sotterrare il CO2

La Terra sta per superare 5 punti di non ritorno per il clima

Il riscaldamento globale ha portato al collasso delle calotte glaciali, al disgelo del permafrost, allo stop della corrente nel nord dell’Atlantico e alla scomparsa delle barriere coralline

Per colpa del riscaldamento globale, il sistema Terra è ormai prossimo a superare cinque punti critici di non ritorno per il clima (il collasso delle calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide occidentale, il diffuso disgelo del permafrost, lo stop della corrente marina del Labrador nel nord dell’Atlantico e la scomparsa delle barriere coralline), mentre altri tre potrebbero essere superati nel prossimo decennio.

A lanciare l’allarme, in occasione della Cop 28 di Dubai, è il rapporto Global Tipping Points Report, prodotto da un gruppo di oltre 200 ricercatori di 26 Paesi coordinati dall’Università di Exeter, in collaborazione con il Bezos Earth Fund. 

Il riscaldamento globale, sempre più vicino a superare la soglia di 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, sta alterando gradualmente gli equilibri del pianeta. Come in tutti i sistemi complessi, ci sono punti e luoghi più sensibili ai cambiamenti e altri più resistenti, ma nessun punto di equilibrio può resistere per sempre: superato un certo livello di pressione, osservano i ricercatori, non è più possibile tornare indietro.

Questi punti critici “pongono delle minacce di una grandezza mai affrontata prima dall’umanità”, spiega Tim Lenton del Global Systems Institute dell’Università di Exeter. “Possono innescare devastanti effetti domino, inclusa la perdita di interi ecosistemi e della capacità di coltivare colture fondamentali, con impatti sociali che includono migrazioni di massa, instabilità politica e collasso finanziario”. D’altra parte esistono anche molti punti di svolta positivi, che possono accelerare la transizione verso un’economia a emissioni zero o negative. 

“Ciò sta già accadendo in settori che vanno dalle energie rinnovabili e i veicoli elettrici ai movimenti sociali e alle diete a base vegetale. Ora - aggiunge Lenton - è il momento di scatenare una cascata di punti di svolta positivi per garantire un futuro sicuro, giusto e sostenibile per l’umanità”.

I punti di non ritorno per il clima

Paragonatevi con il resto della Svizzera

Clima: rallentare o morire? La decrescita sotto la lente

Per affrontare la sfida del cambiamento climatico, il ricercatore di economia ecologica Timothée Parrique sostiene la decrescita e la transizione verso un'economia post-capitalista

Il 2023 sarà l'anno più caldo mai registrato. Secondo il programma Copernicus dell'Unione Europea, nei primi undici mesi dell'anno la temperatura media globale ha superato di 1,4 gradi i livelli preindustriali. Alla COP28 i governi fanno il punto sugli impegni presi per ridurre le emissioni di gas serra. Ma per il momento l'obiettivo fissato dall'Accordo di Parigi del 2015 - contenere l'aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi - sembra sempre più illusorio.

Una delle principali sfide che dobbiamo affrontare nel tentativo di limitare i cambiamenti climatici e, più in generale, i danni all'ambiente e alla biodiversità, è l'adattamento delle attività economiche umane. Per alcuni economisti, come Timothée Parrique, questo adattamento deve passare attraverso la decrescita: "Ci rendiamo conto che quando cresce un'economia, cioè quando produciamo e consumiamo di più, il che si misura con un aumento del prodotto interno lordo (PIL), tendiamo a vedere un aumento di quella che chiamiamo impronta ecologica. Possiamo parlare di gas serra, ma anche dell'uso di metalli e minerali, dell'estrazione dell'acqua, dell'uso del suolo e, naturalmente, dell'impatto dell'inquinamento locale e globale e dell'impatto sulla biodiversità. Quindi, per cominciare, dovremo già prendere la decisione di rallentare, di dirci che il nostro ritmo attuale è insostenibile".

Secondo Timothée Parrique, che nel 2022 ha pubblicato il libro "Ralentir ou périr, l'économie de la décroissance", l'umanità vive a "credito ecologico" e deve adottare misure per ridurre il consumo e la produzione globale. Il ricercatore di economia ecologica dell'Università svedese di Lund ritiene che il miglioramento dell'efficienza attraverso il progresso tecnologico e l'innovazione possa ridurre l'impatto delle attività economiche sul pianeta, ma queste soluzioni non sono sufficienti. Egli sostiene anche le strategie di "evitamento", sottolineando che "la risorsa naturale più desiderabile è quella che non abbiamo bisogno di usare". Parrique, che definisce il suo modello come post-crescita o post-capitalismo, ritiene che sia necessario "inventare un altro sistema".

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La sua posizione non incontra un consenso unanime tra le varie correnti della scienza economica che si occupano di questioni ambientali e climatiche. Per molti economisti, le soluzioni a queste sfide esistono già. Kenza Benhima, professore di economia all'Università di Losanna e direttore dell'Istituto CREA, cita ad esempio la carbon tax, che aumenta il prezzo dei prodotti che emettono alti livelli di CO2 e fornisce anche entrate fiscali che i governi possono ridistribuire per aiutare i cittadini a far fronte a questi cambiamenti. L'autrice fa anche l'esempio dei mercati delle quote di emissione, che consentono di scambiare i diritti di emissione di gas a effetto serra. Queste soluzioni funzionano, afferma l'autrice, ma devono essere diffuse in modo molto più ampio.

"È proprio l'Europa ad aver istituito l'ETS [il sistema di scambio di quote di emissione dell'Unione Europea], che è stato abbastanza efficace nel ridurre le emissioni. La Gran Bretagna, ad esempio, ha effettuato una transizione completa dal carbone al gas. E questo grazie alla carbon tax, semplicemente, rendendo il carbone troppo costoso, non redditizio. Così possiamo vedere esempi in cui funziona, e tutto ciò che resta da fare è andare molto più lontano", dice Kenza Benhima. Nel Regno Unito, le emissioni di CO2 pro capite sono diminuite grazie alla continua crescita economica, secondo l'analisi di Our World in Data. "Non basterà trasformare, con un po' di tasse qua e là, un po' più di riciclo. Abbiamo davvero bisogno di un grande cambiamento", ribatte Timothée Parrique.

Kenza Benhima concorda con i sostenitori della decrescita sulla necessità di politiche forti, ma ne prende le distanze sulle misure da attuare: "Così come quelli che potrebbero essere chiamati 'crescitisti' stanno facendo la scommessa che la tecnologia ci salverà, i decrescentisti stanno facendo la scommessa che la natura umana ci cambierà e che la rivoluzione ci darà il risultato che vogliamo". "La mia visione è piuttosto che se abbiamo obiettivi anche molto ambiziosi in termini di transizione ecologica, cercheremo comunque di farlo riducendo al minimo l'impatto sull'economia. Per me è questo il senso della crescita verde", spiega.

Per rendere la transizione più rapida, i consumatori e gli elettori devono mobilitarsi, secondo Kenza Benhima: "Dobbiamo fare sacrifici per persone che non conosciamo, che vivono in altri Paesi, che non sono nate. E questa è la vera sfida". Entro il 2050, l'IPCC stima che il cambiamento climatico ucciderà 250'000 persone all'anno, più della metà delle quali in Africa.

Per Timothée Parrique è necessario un riequilibrio. "I dati sono chiari sulle disuguaglianze ambientali. Le emissioni dell'1% più ricco su scala globale corrispondono allo stesso volume delle emissioni del 66% più povero. È quindi chiaro che la decrescita delle regioni più ricche è necessaria per ripartire in modo più equo un budget limitato per le emissioni di carbonio. Se vogliamo davvero aprire uno spazio di manovra per i Paesi del Sud, per ottenere uno sviluppo il più possibile sostenibile, dobbiamo liberare le risorse che attualmente sono monopolizzate nei Paesi del Nord", suggerisce il ricercatore.

Secondo il Global Carbon Project, nel 2022 la Cina ha emesso la maggior quantità di CO2, davanti a Stati Uniti e India. Ma i maggiori emettitori pro capite sono il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, che hanno ospitato l'ultima COP, e il Bahrein.