Poca tolleranza per le opinioni degli altri

Più di due terzi degli svizzeri (72%) ritiene che in Svizzera ci sia una mancanza di tolleranza nei confronti dei punti di vista diversi, secondo il sondaggio della SSR "Svizzera, come stai?"

In Svizzera, il 72% delle persone ritiene che i propri concittadini dovrebbero essere più tolleranti nei confronti delle opinioni diverse. Questi sono i risultati di un importante sondaggio nazionale intitolato "Svizzera, come stai?", condotto da gfs.bern per conto della SSR nella primavera del 2023.

Il sondaggio, che comprendeva più di 300 domande, ha raccolto le opinioni di circa 57'000 persone. All'interno di questo ampio panel, agli intervistati non è stato richiesto di compilare l'intero questionario, ma di completare blocchi tematici. Un totale di 8'820 persone ha risposto al blocco tematico su alcuni "valori" della convivenza. Ecco i risultati.

Mentre il 72% delle persone in Svizzera pensa che i propri concittadini siano intolleranti verso altri punti di vista durante i dibattiti, l'84% dei ticinesi la pensa così, ben al di sopra della media nazionale.

Inoltre, se dividiamo gli intervistati in due gruppi, con i vegetariani e le persone che limitano il consumo di carne da una parte e il resto della popolazione dall'altra, il 77% dei vegetariani e il 76% delle persone che limitano il consumo di carne esprimono il desiderio di una maggiore tolleranza nei confronti delle altre opinioni, mentre il resto della popolazione - i "non vegetariani" e i "non lassisti" - esprime tale desiderio solo nel 63% dei casi.

Non sorprende che anche gli stranieri che vivono in Svizzera siano molto più propensi a percepire questo problema. Il 78% pensa che in Svizzera ci sia una mancanza di tolleranza. Solo il 73% delle persone con doppia cittadinanza svizzera e straniera la pensa allo stesso modo, e solo il 71% degli svizzeri.

Infine, se consideriamo l'appartenenza politica, i sostenitori dell'SVP sono l'unica categoria - tra tutte le categorie socio-economiche o culturali considerate dagli analisti del gfs.bern - in cui questa posizione di rammarico per la mancanza di tolleranza ha solo una maggioranza relativa, non assoluta, ovvero una maggioranza di appena il 48%.

All'affermazione: "In Svizzera, in genere, non si parla dei problemi della società", il 66% degli svizzeri ha risposto "abbastanza vero" (44%) o "completamente vero" (22%), ritenendo che questi problemi siano tenuti al minimo.

Questa percentuale diminuisce con l'aumentare del reddito familiare, passando dal 75% di risposte positive per chi guadagna fino a 3.000 franchi al 58% di risposte positive per chi guadagna oltre 9.000 franchi. Non sorprende che l'importanza data alle questioni sociali diminuisca con le classi socio-economiche più privilegiate.

Più sorprendentemente, gli svizzeri di lingua francese si distinguono nettamente dalle altre regioni linguistiche su questo tema. Solo il 44% ritiene che i problemi sociali siano troppo spesso ignorati. Al contrario, un'ampia maggioranza di intervistati nella Svizzera italiana e tedesca (rispettivamente il 62% in Ticino e il 72% nella Svizzera tedesca) ritiene che i problemi della società non siano generalmente discussi.

È perché questi problemi hanno maggiore risalto nella Svizzera francese che i romandi sono meno insoddisfatti della visibilità dei problemi sociali, o semplicemente perché i romandi se ne preoccupano meno? Non possiamo dirlo dai dati grezzi.

La maggioranza del 63% degli intervistati ritiene che, per motivi di sicurezza, le libertà debbano talvolta essere limitate, con il 50% "abbastanza vero" e il 13% "completamente vero". Tuttavia, c'è ancora un terzo della popolazione che non è d'accordo con tali restrizioni. Più in generale, si tratta di una questione che divide, soprattutto per motivi linguistici, di reddito e politici.

Con il 70%, gli svizzeri italiani sono i più disposti ad accettare restrizioni alle libertà per garantire la sicurezza, seguiti dal 64% degli svizzeri tedeschi, mentre i francesi, con il 55% di risposte positive, sono i più divisi.

Le persone con stipendi più bassi hanno meno probabilità di accettare queste restrizioni rispetto ad altri. Solo il 57% delle persone che guadagnano meno di 3.000 franchi svizzeri è favorevole a limitare la propria libertà per motivi di sicurezza. Solo il 52% delle persone che guadagnano tra i 3.000 e i 5.000 franchi era favorevole. Le categorie salariali più alte oscillano tra il 64% e il 69% di accettazione di queste possibili restrizioni alla libertà.

Un'altra categoria, che ha solo una maggioranza relativa di consensi (49% "a favore"/46% "contro"), è quella delle persone senza affiliazione politica. Inoltre, i sostenitori della SVP (54%) sono molto meno favorevoli a queste misure rispetto ai sostenitori degli altri partiti (65%-75%).

Il 59% degli intervistati ritiene che la maggior parte degli svizzeri si offenda facilmente, contro il 32% che è di parere opposto e il 9% che non lo ritiene.

Non ci sono grandi scostamenti dalla media nazionale nelle varie categorie analitiche, tranne che tra le regioni linguistiche.

Gli svizzeri di lingua tedesca sono i più critici. Il 64% afferma che è "abbastanza" o "completamente" vero che i propri concittadini si lasciano insultare troppo facilmente. Il 57% degli svizzeri italiani si trova in questa situazione. Solo il 42% dei cittadini della Svizzera francese è d'accordo con questa affermazione.

L'opinione pubblica è divisa sul fatto che sia giusto dire ciò che si vuole, anche se offende gli altri. Una stretta maggioranza è contraria (52%), mentre una percentuale significativa della popolazione è favorevole (46%).

La domanda divide nettamente i sessi: le donne sono contrarie (61%), una percentuale superiore alla media nazionale, mentre la maggioranza degli uomini è favorevole (56%).

L'opinione varia anche a seconda delle regioni linguistiche: la maggioranza degli svizzeri di lingua tedesca è contraria (54%), gli svizzeri di lingua italiana sono divisi con il 47% di favorevoli e contrari e il 6% che non ha un'opinione, mentre gli svizzeri di lingua francese sono favorevoli (54%).

Tra i sostenitori della SVP c'è una forte maggioranza a favore della libertà di dire ciò che si vuole, le persone senza affiliazione politica sono divise, mentre i sostenitori di altri partiti sono per lo più contrari.

Meno di un terzo (31%) della popolazione evita spesso di parlare delle proprie opinioni politiche. Il 68% della popolazione non ha problemi ad esprimersi.

Questa percentuale si riscontra in quasi tutte le categorie, tranne che tra gli stranieri, che sono molto più propensi (50% degli intervistati) a non parlarne.

Anche per i punti di vista estremi, esistono gruppi in cui la propria opinione può essere ulteriormente rafforzata. I social media sembrano coltivare queste camere d'eco. Come può un discorso costruttivo avere ancora successo?

Simone Fassora

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Abbiamo dimenticato come si discute?

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La rimozione di statue o l'invito a boicottare personalità sui social network: gli esempi in cui il termine "cancel culture" è stato brandito sono numerosi e danno l'impressione di essere un'espressione generica. Un'analisi di questo termine arrivato dagli Stati Uniti.

Che cos'è la "cancel culture"?

Si può dire quello che si pensa?

Sempre più insulti e minacce contro i politici

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Mathilde Marendaz, deputata vodese di Ensemble à gauche, prima delle elezioni federali ha ricevuto un'inquietante lettera anonima, in cui erano chiaramente espresse minacce di morte. Queste minacce si aggiungono ad altre rivolte a politici di tutto il Paese negli ultimi anni.

I commenti sono estremamente violenti e agghiaccianti. Nella lettera anonima che Mathilde Marendaz ha ricevuto a casa sua, le veniva augurata la morte. "Brucerai come Giovanna d'Arco", si può leggere.

L'autore o gli autori hanno anche minacciato di conficcargli "una lama di 20 centimetri" nella spina dorsale. "No, non ti uccideremo, ti azzopperemo per tutta la vita, lurida p***", continua il testo.

La lettera anonima è stata condivisa su Instagram dalla politica di Ensemble à Gauche, che si è detta profondamente colpita dalle minacce e ha annunciato che presenterà una denuncia penale.

Ma Mathilde Marendaz non è l'unico politico minacciato. In Svizzera, ci sono molte segnalazioni di politici a tutti i livelli politici che vengono insultati o minacciati.

Come nel caso dell'eletta vodese, le minacce possono talvolta essere molto violente. Si presentano sotto forma di lettere, e-mail o pacchi, ma possono anche apparire sui social network o addirittura direttamente per strada. Non è più insolito vedere politici sotto protezione della polizia durante alcune apparizioni pubbliche.

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Le statistiche esistono per le persone protette dalla polizia federale, ovvero consiglieri federali, parlamentari e dipendenti della confederazione. L'anno scorso la Fedpol ha registrato 528 segnalazioni di minacce, di cui 68 effettive e penalmente rilevanti.

Tuttavia, il fenomeno complessivo rimane difficile da quantificare. Per ammissione dello stesso Ufficio di polizia federale, questi dati rappresentano solo la punta dell'iceberg, poiché non tutte le minacce vengono sistematicamente denunciate.

Nel 2021, al culmine della crisi sanitaria, il numero di minacce contro i politici è esploso, con 1'215 segnalazioni nel corso dell'anno. Da allora il clima si è un po' calmato, ma il numero di segnalazioni rimane elevato. Secondo Fedpol, "il tono rimane particolarmente violento e il contenuto delle minacce molto preoccupante".

La polizia federale fa riferimento in particolare ai social network, dove i dibattiti su temi polarizzanti sono condotti senza freni e con un certo senso di impunità.

Politici presi di mira durante le elezioni e le votazioni

Nel bel mezzo della campagna per le elezioni federali, la classe politica ha vissuto un periodo di intensa attenzione mediatica. Oltre agli insulti e alle minacce, è frequente vedere manifesti strappati o scarabocchiati.

Nel cantone Friburgo, ad esempio, sono stati vandalizzati dei manifesti del PLR con la scritta "Smettete di votare per i nazisti". Anche a Zurigo è stato imbrattato un manifesto elettorale di Andri Silberschmidt (PLR), consigliere nazionale uscente, con simboli e scritte naziste.

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<blockquote class="twitter-tweet" data-width="550" data-lang="fr"><p lang="de" dir="ltr">Heute am Bahnhof Oerlikon. Ist dies die Toleranz der Toleranten? <a href="https://t.co/GifaK3lrzv">pic.twitter.com/GifaK3lrzv</a></p>&mdash; Thomas Aeschi (@thomas_aeschi) <a href="https://twitter.com/thomas_aeschi/status/1699768597382394272?ref_src=twsrc%5Etfw">7 septembre 2023</a></blockquote>
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Tuttavia, le campagne elettorali sono spesso meno accese di alcune votazioni altamente polarizzanti. Nel 2021, ad esempio, durante le iniziative sui pesticidi, il clima è stato molto velenoso, con numerose minacce di morte, insulti e manifesti imbrattati o dati alle fiamme. Un politico dei Verdi è addirittura finito sotto protezione della polizia dopo un dibattito televisivo.

Odio verso gli eletti

Quando in Gran Consiglio mancano le buone maniere

I lavori dell'ultima legislatura sono stati caratterizzati anche da aggressività e mancanze di rispetto: le riflessioni di alcuni deputati

"Smettila di fare lo stupido!". "Capisco che abbiate una maggiore necessità di apprendere la lingua...". "Ma vogliamo dare questo spettacolo? Io vado, mi dispiace". È un piccolo florilegio di esclamazioni risuonate giorni nell'aula del Gran Consiglio ticinese, durante gli ultimi lavori della scorsa legislatura cantonale. Le stesse che inducono a qualche riflessione sul fatto che non è stata una legislatura brillantissima, né sotto il profilo del dibattito, né sul piano dell'educazione nella dialettica in aula: attacchi personali, aggressività, maleducazione portano inevitabilmente a derive, alla perdita di controllo e di discussione.

Sul tema, abbiamo raccolto le considerazioni di 4 parlamentari che non si sono ripresentati agli elettori. Maristella Polli, ad esempio, ha lasciato dopo 16 anni il Gran Consiglio un po' amareggiata: "Quando ti rivolgi istituzionalmente a dei consiglieri di Stato, non puoi rivolgerti a loro, dicendo 'Te, Vitta!'... Non puoi rivolgerti ai tuoi colleghi in Parlamento, dicendo 'la stupidità politica di voi colleghi...'". La deputata PLR sottolinea inoltre altre mancanze di buone maniere: al Legislativo "non si viene per chiacchierare durante l'esposizione di un collega alla tribuna", come "non si continua a entrare e uscire, andando magari anche al bar, a bere o a fumare la sigaretta...".

Per parte sua Claudio Franscella evidenzia che sullo sfondo di mancanze di rispetto "abbiamo assistito a dibattiti molto duri, al di là del limite accettabile". L'esponente del Centro, che del Legislativo è stato anche presidente, chiama poi in causa anche il ruolo della frammentazione politica e della maggiore presenza di deputati di forze politiche minori. Per loro "la seduta parlamentare diventa l'unica possibilità per far sentire la propria opinione, anche dai media, e per andare sempre più allo scontro". È quindi cambiato tutto, sostiene, "ma anche perché è cambiato il modo di comunicare".

SEIDISERA del 16.03.2023: Gran Consiglio ticinese, "Non si sa più discutere" / RSI

Anche Michele Foletti è stato alla presidenza del Gran Consiglio. E al termine della sua esperienza parlamentare osserva che i deputati "sono più interessati ad avere spazio e visibilità sui social, che a dibattere". Secondo il leghista si è persa un po' anche la capacità di dibattere, "perchè si urlano le proprie tesi, senza nemmeno ascoltare cosa ha da dire" chi non la pensa allo stesso modo.

Secondo Daniela Pugno Ghirlanda, che ha lasciato il Gran Consiglio dopo 7 anni, la situazione è peggiorata "perché questo comportamento si spiega soltanto con la presunzione, da parte di chi si comporta male, di aver capito tutto". Si esce così con la sensazione che "non ci sarà possibilità di intesa, perché il terreno non è adatto all'intesa. L'auspicio per l'avvenire è quindi il seguente: "Fare poche cose, che siano però approfondite. E che ci sia un ascolto delle persone che hanno una competenza in un certo settore", afferma la rappresentante del PS.

Quando in Gran Consiglio manca il rispetto

Paragonatevi con il resto della Svizzera

Come discutere del conflitto in Medio Oriente?

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Come può la società discutere in modo costruttivo del conflitto in Medio Oriente? SRF News ne ha parlato con due esperte dell'Istituto per il dialogo interreligioso di Zurigo.

Hannan Salamat: Noto che ci sono sempre meno spazi in cui sono ammesse le sfumature di grigio. La mia osservazione è che le persone pensano che in un conflitto che ha così tante dimensioni e così tante parti, devono prendere una posizione chiara. E ciò che mi spaventa è che c'è sempre meno spazio per posizione diverse, sta diventando un aut aut.

SRF News: Le cause dei terribili eventi del 7 ottobre vengono talvolta interpretate in modo completamente diverso. Come si avvia una discussione?

Dina Wyler: Con umanità. Non è necessario essere esperti di Medio Oriente. La cosa difficile è che vogliamo negarci a vicenda il nostro dolore. Finché lo facciamo, non possiamo parlare del conflitto. Dobbiamo riconoscere la grande sofferenza che tante persone stanno vivendo in questo momento. E solo dimostrando questa radicale solidarietà reciproca possiamo gettare le basi per un dialogo.

SRF News: Lei, Hannan Salamat, visita le scuole e consiglia agli insegnanti come parlare del conflitto in Medio Oriente. Si tratta di mediazione, come si fa concretamente?

Salamat: In particolare, si tratta di una cultura del dibattito. Non c'è armonia in una società plurale. In altre parole, abbiamo opinioni diverse, le nostre storie hanno prospettive diverse. Diversità di opinioni significa differenza di opinioni, e il dialogo gioca un ruolo essenziale. Come possiamo discutere in modo costruttivo tra di noi come società? Dove vogliamo andare, come vogliamo vivere insieme?

Wyler: E se posso aggiungere qualcosa, dobbiamo imparare a cambiare prospettiva, soprattutto in un conflitto incredibilmente complesso come quello in Medio Oriente. E soprattutto, dobbiamo riconoscere che c'è spazio per molteplici prospettive.

SRF News: Perché molte persone trovano così difficile discutere le sfumature?

Wyler: Questa è la grande domanda. Credo che sia perché pensiamo di dover vincere una discussione, perché per molte persone, soprattutto quelle colpite, la posta in gioco è alta. Non ci ascoltiamo più l'uno con l'altro, ma parliamo in due bolle narrative, che a volte possono essere entrambe vere. Dobbiamo riuscire a dare spazio a tutte queste voci diverse.

SRF News: Si potrebbe dire che non è così importante il modo in cui discutiamo del conflitto in Medio Oriente in Svizzera. Come risponde?

Wyler: Credo che questa domanda sia anche ingannevole, perché ha a che fare con noi qui in Svizzera, in Europa. Leggiamo di episodi di antisemitismo, che sono in aumento in tutto il mondo. Il razzismo anti-musulmano è in aumento. Facciamo parte di questa popolazione in cui accadono queste cose. Hannan e io non siamo esperte di Medio Oriente. Ma facciamo parte della società svizzera e abbiamo una visione di come dovrebbe essere questa società e di come dovremmo e possiamo interagire al meglio gli uni con gli altri. E questa è una responsabilità di tutti.

L'intervista è stata condotta da Sandro Della Torre.

Perché l’antisemitismo è ancora vivo, “disarticolato e più temibile di un tempo” 

Parla Giacomo Jori, professore straordinario di Letteratura italiana nell’Università della Svizzera italiana, coordinatore del centro “Judaica”

Dal 7 ottobre, data in cui Hamas è passata all’azione in Israele, in Francia si sono registrati più di un centinaio di azioni contro gli ebrei. L’allerta è comunque alta in tutta Europa, tanto che da più parti si parla (e non da oggi) di un ritorno dell’antisemitismo, anche perché come antisemita è bollato l’odio di Hamas per Israele. È davvero così? Decenni dopo la Shoah dobbiamo ancora fare i conti con l’antisemitismo in Europa? E ancora, se l’attacco di Hamas contro Israele ha radici antisemite, come si deve giudicare il Governo di Netanyahu e in particolare la sua politica contro i palestinesi?

Ne parliamo con Giacomo Jori, professore straordinario di Letteratura italiana nell’Università della Svizzera italiana, vicedirettore della «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa» e condirettore di «Lettere Italiane». Jori coordina le attività scientifiche del centro di “Judaica” della Fondazione Goren Monti Ferrari.

Professore, partiamo dall’inizio. Cos’è l’antisemitismo?

“Mi sono occupato anni fa di un autore italiano, Mario Lattes, che per descrivere l’antisemitismo cita alcuni versi del Libro di Ester: ‘E v’è un popolo sparso fra gli altri popoli, in tutte le province del tuo regno, le cui leggi son differenti da quelle di ogni altro popolo: ed esso non osserva le leggi del re; tal che non è spediente al re di lasciarlo vivere’. Nella Bibbia c’è dunque già la coscienza della diversità di un popolo, che diviene oggetto di persecuzione”.

L’Europa è uscita dalla Shoah anche grazie alla sua memoria, decine di testimoni che hanno raccontato cosa è accaduto affinché quel buio non si ripeta più. Questa memoria non è più sufficiente?

“No, non è più sufficiente, e non lo è stata, come ci mostra il sangue degli ultimi decenni; inoltre dobbiamo ora tener conto del venir meno dei testimoni, che fatalmente diminuiscono da una generazione all’altra. L’inevitabile scomparsa dei testimoni ci impone di elaborare nuove strategie per immunizzare il corpo sociale dalla violenza razzista e dall’antisemitismo. Già oggi è decisivo rifarsi ai testi capitali dei testimoni, penso anzitutto a “Se questo è un uomo” di Primo Levi”.

Quanto influisce ancora oggi secondo lei un certo pregiudizio anti-giudaico molto antico proprio del cristianesimo? Nel 1543 Lutero pubblica il libello “Degli ebrei e delle loro menzogne”; poi con la controriforma la Chiesa di Roma istituì i ghetti e l’inquisizione. Presto il lessico anti-ebraico da religioso divenne politico fino a sfociare nell’antisemitismo contemporaneo. Tutto questo ha un peso nel ritorno dell’antisemitismo oggi?

“Non credo che quanto sta accadendo sia un mero retaggio dell’antisemitismo maturato in ambito cristiano. Non mi sembrano queste le coordinate. Altre sono le ragioni che muovono le violenze alle quali siamo oggi costretti ad assistere”.

Ma possiamo parlare oggi del ritorno dell’antisemitismo?

“Sì, e lo apprendiamo dalle cronache. Le svastiche sulle sinagoghe, la distruzione di lapidi e ‘pietre d’inciampo’, e tante alte forme di violenza sono gesti antisemiti, che fanno paura anche se non hanno dietro uno Stato, come ai tempi di Hitler. L’antisemitismo disarticolato di oggi è temibile proprio perché imprevedibile, non organizzato, difficilmente contrastabile e anche riconoscibile. Ripeto, queste nuove violenze non hanno dietro un’ideologia riconoscibile, se non una generica xenofobia, odio e frustrazione che generano violenza. Direi che è un antisemitismo che nasce dall’odio del diverso e che diviene xenofobia e razzismo”.

Torniamo all’oggi: come distinguere le proteste contro l’operato di un Governo, ad esempio quello di Netanyahu, dall’antisemitismo?

“È necessario farlo e va fatto, usando la ragione, e avendo presente che Israele non coincide in tutto e per tutto con gli ebrei e con la loro eredità storica e culturale. Dal 1948 in poi, Israele è uno Stato nello scenario internazionale. Quando si considera l’operato di Israele occorre allora applicare anzitutto le categorie della ragione e della politica e non quelle affettive ed emotive. Va tenuto conto che Israele nasce come risarcimento di un genocidio e questa genesi lo rende uno Stato unico, nei confronti del quale la nostra riflessione deve farsi più attenta e avvertita. Ma resta uno Stato il cui operato nella storia è politico”.

Se l’antisemitismo è tornato, o se non se ne è mai andato, quali anticorpi usare?

“Come ho detto punterei sulle testimonianze scritte e anche sul cinema, ma sui classici e non sulla fiction. L’arte e il pensiero dovranno sostituirsi alla testimonianza, saranno la nostra ‘testimonianza’ di uomini e di cittadini europei”.